All’inizio degli anni ottanta, nella ristorazione francese c’era molto fermento. Girardet, Chapel, Maximin, Vergé, Robuchon, Senderens, Bocuse, Guerard e compari vivevano, chi più chi meno, il loro momento di gloria, Alain Ducasse a Juan les Pins perfezionava il suo stile neoclassico, Pierre Gagnaire, in un ex studio fotografico di St. Etienne, si dedicava alla sperimentazione pura, Marc Veyrat ad Annecy metteva a punto una linea personale… In questo contesto, la fama di Michel Bras, un giovane cuoco autodidatta di Laguiole, microscopico paese nel centro della Francia, cominciò a varcare i confini. Bras ha creato uno stile che ha cambiato il corso della cucina contemporanea lavorando per sottrazione. Pochi elementi ben distinti, uso di erbe autoctone raccolte qualche ora prima, abolizione di panna e salse, pulizia, minimalismo, sensibilità, rigore, estremo rispetto per la stagionalità dei prodotti e forte attaccamento alle proprie radici. Una cucina di territorio? Non solo, a meno che nei prati dell’Aveyron pascolino astici e branzini. Piuttosto una cucina filosoficamente ed intellettualmente influenzata dall’Aubrac, una regione selvatica ed incontaminata dove il contatto diretto con la natura è inevitabile. La genialità e la sincera passione di Michel Bras per tutto ciò che è buono, bello e autentico hanno fatto il resto. Il Michelbras- style, che ha influenzato decine di cuochi dell’ultima generazione, è stato abbracciato senza riserve dal figlio Sébastien, contitolare delle cucine, che sotto la guida del padre si è addossato il difficile compito di evolverne la filosofia. I risultati della collaborazione sono promettenti: iniziamo con una setosa tartina di funghi porcini, tre deliziosi assaggi al cucchiaio di triglia con spinaci, peperoni con cereali e animelle d’agnello con salsa alla senape. Poi non resistiamo alla tentazione e ordiniamo un classico gargouillou di verdure. Qui si tratta di fenomeni sovrannaturali. La trasformazione in capolavoro di un semplice piatto di verdure lesse è un’impresa impossibile senza un’abbondante dose di magia. E la magia c’è. Eccome. Passiamo a una ventresca di St. Jean-de-Luz con vinaigrette di fichi neri, germogli, formaggio bianco e folioles anisées; meno magica del gargouillou ma ineccepibile. Procediamo con animelle e filetti mignon di agnello autoctono spadellati con frutti secchi, fagioli “coco”, oseille de Guinée, polvere di scorza d’arancia e olio al serpolet; un piatto di grande precisione e piacevolezza. Concludiamo con una straordinaria anguilla della Loira glassata, affogata in una sugo molto liquido dai sentori dolci e leggermente affumicati, accompagnata da carciofi violetti e da una julienne di ravanelli e foglie di balsamite. Grandiosa. Al momento del dolce, dopo un assaggio di aligot, non ce la sentiamo di rinunciare all’irresistibile coulant al cioccolato®. Probabilmente, il coulant, dopo la pesca Melba di Escoffier, è il dessert più plagiato del mondo. Se Michel Bras incassasse un euro per ogni copia non autorizzata, oggi sarebbe multi-plurimilionario. E, fidatevi, è all’altezza della sua fama. Quando un ristorante si trova in un luogo sperduto come questo, è lecito chiedersi se davvero “vale il viaggio”. Secondo noi sì.