Industria alimentare

È facile riscontrare che esiste una contraddizione fra l’attuale popolarità dello show gastronomico televisivo e la quasi nulla attività culinaria domestica. Analogamente, sorprende la pubblicazione di tanti libri di cucina e ricettari in un’epoca in cui tutti mangiano quasi sempre fuori: i bambini a scuola, i genitori in mensa o un piatto del giorno alla trattoria all’angolo... Colpisce questa contrapposizione fra realtà e finzione. Paradossi della vita.
In questo mondo, in cui la scarsità di sensazioni oggettive dà forza ai sogni gastronomici, è lecito domandarsi che cosa stia cambiando. E c’è di nuovo, soprattutto, che il futuro della società dipende dall’industria alimentare. Anche quello dell’alta cucina, sempre più condizionata da prodotti, concetti e tecniche creati dalla fisica/chimica gastronomica. Le multinazionali hanno più conoscenze, più personale, più tecnologia, più capacità di investimento di qualsiasi altro piccolo esercizio. Certo, una salsa di pomodoro fatta in casa – diciamo un 3% di quelle che si fanno? – non sarà mai superata da un prodotto in barattolo o in lattina. Ma ci si può chiedere anche quanti soffritti di pomodoro appena fatti siano migliori di quello commercializzato da Mata. Quante maionesi caserecce possono trattare da pari a pari quella di Yemas de Santa Teresa? Quanti ristoranti rinomati sono in grado di presentare fagioli belli interi come quelli di alcune fabadas e di altri prodotti inscatolati? Sì, lo sappiamo: non c’è niente di meglio delle cose fatte artigianalmente. Sempre che sia davvero artigianato e di livello eccezionale.
L’industria alimentare sta cambiando il mondo. Sicuramente il polipo alla galiziana non sarebbe diventato una tapa onnipresente nei nostri bar se non fosse stato per la sua capillare commercializzazione sottovuoto. Sicuramente il gazpacho non starebbe conquistando il mondo se Alvalle non lo facesse degustare a Roland Garros. Sicuramente il foie gras non avrebbe democratizzato l’eccellenza apparente se non si fosse riusciti a ridurre i costi della produzione di fegato grasso. Sicuramente la farina non sarebbe stata sostituita da tanti e tanti diversi leganti e gelatinizzanti se non ci fossero i laboratori di ricerca delle grandi ditte. Sicuramente nessuno avrebbe potuto creare lo show dell’azoto liquido se l’industria gelatiera non avesse standardizzato le palline di agrumi e di frutti tropicali in milioni di espositori. Sicuramente molti dei prodotti esotici che molti cuochi dicono di aver creato – che faccia tosta! – si producono in serie a un costo minimo. Sicuramente le false uova di tanti e tanti pesci, succedanei che fanno la loro figura, hanno indotto a sferificazioni varie.
Quanto dovremo aspettare per vedere piatti di lusso venduti per le loro proprietà salutari e perfino dimagranti? Se è per questo, possiamo già trovare sul mercato una infinità di panacee bell’e pronte che ci risolvono i problemi estetici e ci danno la vita eterna. Vivande, dessert, frullati... anticancerogeni e, ovviamente, miracolosi. L’infusione di cactus, se la presenta l’anchor man di turno, o addirittura la superstar Sempronio Lingualunga, può commuovere il palato, scatenare emozioni, perfino cambiarci la vita.
L’industria gastronomica non sta forse cambiando irrimediabilmente, e a ritmo vertiginoso, il nostro modo di mangiare, a casa e al ristorante? Certamente. Molto più dei grandi chef, il cui ruolo – poche volte assunto – deve restare nell’ambito dell’artigianato. O, in alcuni casi contati, in quello dell’arte.