Mete della cucina spagnola
È d’uopo chiedersi quali sono state le conquiste realizzate dalla cucina spagnola nell’ambito internazionale e che mete si deve fissare e raggiungere a medio termine. È evidente che negli ultimi anni grazie al fenomeno Ferran Adrià-El Bulli la fama è aumentata in modo considerevole e, ciò che è più importante, è riuscita a far sì che professionisti e gourmet le riconoscano il titolo e la considerino come l’avanguardia mondiale. Chiaro che questa meritatissima medaglia si riduce, oggi come oggi, all’elogio di un’élite d’intenditori. Di quelli che sono consci dell’influenza fondamentale che sta avendo sull’evoluzione concettuale e sulla tecnica di migliaia di chef che ammirano quanto il genio di Roses (Girona) e altri sperimentati cuochi stanno realizzando. E pur se è vero che la rottura coquinaria spagnola non si riduce a una persona, per importante e trascendentale che sia, il vero è che senza questa opera di riferimento e senza il fattore mediatico che questa ha comportato, non si sarebbe avanzato tanto in ricerca e conoscenze, né godrebbe del reputato prestigio che vanta.
Tuttavia, la contemporaneità culinaria che inalberano i più insigni cuochi spagnoli non è riuscita a far presa tra la gente corrente. Oggi come ieri, chi continua a montare grandi ristoranti a New York e a Tokio, a Mosca e a Pechino sono i francesi e gli italiani e, come no, i giapponesi. Si contano per centinaia i professionisti di queste nazioni europee stabilitisi in questi sovrappopolati capoluoghi o che, quanto meno, dirigono aristocratici stabilimenti. E parallelamente a queste e ad altre attività alberghiere c’è una prospera industria alimentare galla e transalpina negli Stati Uniti, in Giappone e nelle altre nazioni ricche.
Perché gli spagnoli non siamo ancora una potenza gastronomica così importante come gli italiani e i francesi? Sicuramente perché la nostra grandezza culinaria è piuttosto recente: sino a soli due giorni fa l’alta cucina con identità propria non esisteva da queste parti. Perché ingannarci? Non c’erano né soldi né cultura per sostenere un elenco di prestigiosi ristoranti. Ancora oggi il reddito gastronomico pro capite è abbastanza inferiore a quello della Francia e dell’Italia; basta vedere il consumo di champagne, ad esempio. E per benessere gastronomico ci riferiamo sia a quanto spendono i cittadini per mangiare fuori casa, che al numero di cuochi qualificati che genera la professione. Questi, forse per mancanze di offerte dall’estero, forse perché ne hanno abbastanza con l’attività interna, forse per mancanza di ambizione, forse per amore alla terra nativa,... forse,... forse,... Per questi e per molti altri argomenti, ivi inclusa, chiaramente, la mancanza di un’industria alimentare esportatrice, scelta e non tanto scelta, non siamo stati ancora in grado di conquistare gastronomicamente il pianeta.
Migliora l’olio, migliora anche il vino,... c’è spirito di superamento nell’elaborazione e commercializzazione di prodotti. Se di pari passo a questa crescita alimentare, si mantiene la filosofia coquinaria degli ultimi anni, che offre una culturizzazione generale, a tutti i livelli, la rivoluzione culinaria finirà per collocare la cucina spagnola in un posto d’onore. Abbiamo infatti una ventina di chef invidiabili per continuare a costruire il futuro. Se Ferran Adrià continua a mantenere la stessa vitalità creativa di sempre. Se Martín Berasategui continua con il suo incrollabile perfezionismo. Se Quique Dacosta consacra il talento artistico di cui fa sfoggio. Se Tizio o Caio non si sgonfiano strada facendo. Se riusciamo a incorporare una mezza dozzina di trentenni al vertice della coquinaria in Spagna. In definitiva, se continuiamo a lavorare con l’idealismo, l’ambizione e l’impegno che ha caratterizzato le epoche più recenti, è certo che finirà per essere “vox populi” ciò che gli specialisti sanno: abbiamo la cucina più evoluta e alcuni dei migliori cuochi del mondo. Tempo al tempo.