Globalizzazione e Identità Propria
A volte la gente vuole giocare con i tarocchi e predire il futuro. Dove va la cucina? Bella domanda... Dove va la cucina?
Interrogativi come questo rivelano un atteggiamento volenteroso, ma anche una certa limitazione mentale. Ciò che avverrà domani sfugge all’essere umano, per molto che lo condizioni e che ne sia il protagonista.
Certamente le circostanze politiche, economiche e sociali possono avere la loro influenza sulla realtà e sulla società, a cui non è aliena né la cucina, né la gastronomia. Si dovrebbe fare uno studio sulle conseguenze delle 35 ore settimanali sui ristoranti di alta cucina, soprattutto quando in altri paesi europei sono molti gli stabilimenti che, nella stessa competizione, nella lotta per il prestigio e la qualità ne lavorano 60? Si dovrebbe analizzare la ripercussione sui risultati finali che deriva dal contare unicamente ed esclusivamente su cuochi stipendiati, o il valore aggiunto che suppone il poter contare, oltre all’organico, su decine di mani di giovani tirocinanti o professionisti in “riciclaggio"? 13 persone che lavorano 35 ore, per dotate che siano, ne potranno mai vincere 30 che lavorano 60 ore, per limitate che siano?
Ci si è mai chiesti come il rincaro che suppone la politica fiscale e l’IVA, ridotta o smisurata, influisce sulla clientela? Maggiore è il rincaro, più stimoleremo la presenza di un pubblico borghese, nel senso peggiorativo del termine, signorotti che danno più importanza al fatto che li trattino come tali che ai piaceri della buona cucina.
Il fatto di promuovere ristoranti sontuosi, pomposi, fastosi... a cui mai potrà accedere un giovane cuoco o un piccolo imprenditore non sta forse limitando la promozione di nuovi talenti e la cucina del futuro?
Concetti come la salute e l’estetica nascono dall’abbondanza, li assume la cittadinanza e li fa propri l’industria alberghiera, che crea cucine per mantenere la linea.
La tecnologia. Non ci sono macchine che hanno determinato la storia culinaria nei ristoranti? La produttività non è forse una norma che influisce sull’attività quotidiana e sui suoi risultati?
Tutti questi e altri sono fattori che eccedono, vanno al di là dei cuochi e dei loro propositi. Come li supera anche la fabbricazione e la distribuzione di articoli alimentari. L’universalizzazione dei prodotti e la scomparsa della cucina casalinga per il diverso ruolo che ha iniziato ad occupare la donna nella società, per la fretta a cui è soggetta la nostra vita, per gli orari di lavoro, perché ormai nessuno pranza più a casa, per tante e tante cose, incluso il cosmopolitismo intellettuale, l’atteggiamento più universale delle persone, la commercializzazione aggressiva delle multinazionali..., per tutto ciò si sta impiantando in gran misura la globalizzazione. Occhio, la globalizzazione della pizza, dell’hamburger, dei panini, degli spiedini, delle rosticcerie...tutto, persino le cose più tradizionali, persino le cose localmente più circoscritte hanno solo un sogno: globalizzarsi.
Che cosa chiamiamo identità?
Forse il pulpo a feira ha meno identità da quando è uscito da Galicia ed è diventato una delle ricette più emblematiche di bar, taverne, osterie,... banchi di Spagna? Forse il foie gras ha perso idiosincrasia perché si fabbrica e si serve in Francia, Israele, Stati Uniti, Ungheria,... in qualsiasi parte del mondo? Forse si possono fare risotti solo in Italia? Si vuole forse negare al baccalà qualsiasi opzione che non sia alla basca o al pil-pil?
L’universalizzazione comporta un problema più grande della perdita degli ambienti e delle culture territoriali; con la generalizzazione di un piatto, questo si volgarizza, si degrada, perde qualità.
Ci affascinano le peculiarità di ogni regione, crediamo che si debbano conservare in quanto patrimonio gastronomico dell’umanità... e costituiscono una diversità che arricchisce. Ma ciò non ci deve portare a dogmatizzare, ad imporre a nessuno di limitarsi a ripetere quanto ereditato. Chi agisse in questo modo potrebbe praticare una coquinaria particolare, tanto più particolare quanto più piccola sia la comunità che la pratichi, ma sarebbe un cuoco senza nessuna identità. L’identità ha solo un futuro: la persona, la cucina d’autore, che deve avere tante ispirazioni, tanti sentimenti, tanti caratteri, tanti criteri quanti ne siano gli autori... autori con stile, personalità, carattere, distinzione. Distinzione, questa è l’identità.
Mangiare con identità non suppone un cuoco con identità. Per un orientale, ad esempio, mangiare dei calamaretti en su tinta o una seppia al nero può avere molta identità, anche se ci si deve chiedere: che identità professionale ha chi ripete pari pari queste ricette?
Anche una pizza a New York, massima testimonianza della globalizzazione, può avere identità. Questa le viene data dalla qualità e dai contenuti differenti che la distinguano.
L’identità può essere data da molte cose: i prodotti utilizzati (singolarità ed eccellenza), le tecniche impiegate dallo chef in modo sistematico, l’idiosincrasia culturale..., tutto ciò che marchi la differenza.
Anche se abbiamo una certa predilezione per la cucina d’autore d’ispirazione e stile europeo, soprattutto la spagnola, l’italiana e la francese, evitiamo di consigliare a chicchessia la via da seguire. Tra gli altri motivi, perché a Roma si giunge per differenti strade. La verità con la “V” maiuscola non esiste. Ci sono tante verità quanti sono i cuochi e i clienti. Tutti i concetti, tutte le comunità, tutti i palati si devono poter esprimere. E l’identità risiede nel plasmare un’opera, uno stile originale... all’interno di una rilevante perfezione. La persona, con le limitazioni e le condizioni che il mondo gli pone, è oggi il soggetto principale dell’identità.