Peter Goossens, il più celebre cuoco belga, si crogiola nel suo successo. Sa bene di essere all’apice della sua carriera professionale, ed anche che da lui ci si attende molto. Continua di conseguenza a dimostrare un chiaro spirito evolutivo, sia pure all’interno di uno stile riflessivo e perfezionista che dà splendore e gloria al suo operato. Nulla è statico, tutto cambia secondo una stessa filosofia, che è poi quella della grande cucina francese nell’interpretazione di un belga di forte carattere, che lascia la sua impronta su quanto fa. Intelligente, cerebrale, erudito, metodico, virtuoso… Come pochissimi altri chef, egli è capace di proiettare con precisione matematica nel suo lavoro sapori raffinati ed armoniosi, contrasti serici destinati a fare le delizie del cliente, considerato il re del ristorante. Si nota, eccome, lo sforzo che c’è dietro ad ogni piatto ed il rigore con cui viene risolto. Il commensale non può non riconoscere la professionalità del cuoco e la sua immensa capacità organizzativa; non può evitare di ammirare la precisione con cui lavora, anche se nulla sorprende per il suo talento, per il suo ardire, per la sua immaginazione... artigianato più che arte. La carta cambia con frequenza ed è particolarmente soggetta alla stagionalità e alla fertilità mentale dello chef. Vediamo un possibile menù ideale. Se ci sono i jets d’houblon, in primavera, è d’uopo ordinarli: se già di per sé sono eccezionali, poi la cucina li ingigantisce nelle sue composizioni. L’ultima volta ce li ha offerti in due versioni: con gamberetti e lamelle traslucide di lardo e con ostriche e crescioni: una più appetitosa dell’altra. Che Peter si scervelli in ogni sua creazione è ben noto. E poi si vede, per esempio, nelle cappe sante - uno dei prodotti di cui è più prodigo –, che propone in due cotture, fredde e calde, con foie gras, tartufi, barbe di becco e salsa di crostacei. Monumentale lo scampo: bello, raggiante di freschezza e sugosità, la cui grandezza è potenziata dall’anguilla affumicata, dal boccone della regina (sot l’y-laisse), dalla melanzana e dal curry: una vera e propria sinfonia di sensazioni. Immensi i calamari, praticamente crudi, tronfi di quella consistenza e di quel sapore così speciali che hanno quando il fuoco non glieli ha strappati, che nuotano in un sazievole brodo di bouillabaisse, che li riscalda, in cui si notano anche delle alghe, che danno forza e complessità di sapori a questo egregio e moderno guazzetto del terzo millennio. Ecco di nuovo la materia prima a farla da padrona, quasi arrogante: un magnifico filetto di un rombo di quattro o cinque chili che si erge su di un letto di spinaci, servito con una penetrante bearnese arricchita dall’astice – un medaglione, alcuni pezzi e il suo sugo – che arriva a riscaldare la bocca, intensa e ben pepata. Un altro momento magico lo regala la lombata di agnello dei Pirenei, cotto a meraviglia, che permette di percepire e perfino di sentire il valore della carne, cui si addice perfettamente la compagnia di un sugo dello stesso animale, del purè di topinambur, delle indivie piccoline caramellate e del pot-pourri di animelle, champignon di bosco e trombette dei morti. Scusate se è poco. I dessert confermano la sapienza e la costanza del padrone. Due esempi di raffinatezza ed equilibrio: la arancia con banana, tè, cocco e marshmallow; il maracuja con cioccolato amaro, limone verde, zenzero e ananas. Per il resto, il carrello dei formaggi è memorabile, la cantina offre tutto quanto si può desiderare e il servizio sfiora la perfezione. Insomma, un ristorante in consonanza con il modello Michelin.